‘N’tool Legnoon «Và sü e töi»

Nel Legnone «Và su e prendi»

Ho trascorso un’intera estate al rifugio Griera in compagnia della rifugista Serena Sironi e dei suoi aiutanti Michele, Arduino e Gaetano, ai quali dedico questo lavoro, insieme a tutte le altre persone che ho incontrato durante questa esperienza, e di alcune delle quali riporto stralci di vita in questo scritto e nelle fotografie.

Alla fine dei quattro mesi di permanenza posso dire che qui si beve sempre in compagnia, perché è più bello e più umano, c’è la goliardia di battute, detti locali o canzoni popolari, come alla festa degli alpini la prima domenica di agosto o di Subilale il 15 e 16 dello stesso mese.

«Agòsc, giò ül suu lè fosch». (Ad agosto, giù il sole è fosco)

Ciò che segue sono mie impressioni e pensieri maturati lavorando al rifugio, perciò prendo la licenza di scrivere in prima persona, sebbene cercherò di non trascurare dettagli e informazioni per descrivere il luogo e tutto ciò che di rilevante vi si trova. In questo scritto ho trasportato l’amore per la fantasia e per la poetica senza dimenticare quello per il reale, perciò questo è solo una versione possibile della vita che qui si può trovare.

La mia esperienza al Rifugio Griera comincia sabato 11 maggio 2013, una giornata grigia e fredda; è addirittura è la prima volta che incontro Serena. Partiamo dalla Butega di Pagnona di Tagliaferri Maurizio (personaggio noto come il Muli), destinazione il rifugio Griera al Monte Legnone. Questo primo fine settimana prosegue tranquillo e prendo confidenza con il luogo e con le varie mansioni da tuttofare per cui mi sono offerto di lavorare qui: lavare le stoviglie e metterle al loro posto, pulire sala, cucina, bagni e “camerone”, accendere la stufa e prendere la legna, fare la spola tra cucina, cantina e magazzino e infine preparare la tavola e fare servizio da cameriere. La confidenza con tutto ciò ovviamente è arrivata poco alla volta, infatti ho imparato a fare la pasta fresca, a recitare l’elenco delle crostate a memoria e anche a fare la cassa.

Detta in breve della mia occupazione lavorativa, passo a descrivere il paesaggio che mi ha ospitato, della cui esistenza non ero nemmeno a conoscenza prima di arrivarci comodamente in jeep seguendo la via Cadorna. Il rifugio si trova alla quota di 1734 m.s.l.m, è esposto verso ovest e ha l’orizzonte aperto da sud-est fino a nord-ovest circa, perciò in estate prende il sole dall’alba e fino a vedere la striscia di luce verde che conclude il tramonto. Il lago di Lugano è quasi sempre ben visibile, mentre il Monte Rosa e il Cervino lo sono nelle giornate spazzate dal vento.

In aggiunta alla vista di Alpi e Prealpi e delle valli glaciali, acuendola un poco si trovano nei prati erbe, piante e fiori, una flora varia, multicolore, odore e sapore, indice di buona concimazione dei prati ad opera delle bestie: ortiche e achillea – due erbe essenziali per la cucina del rifugio e per la fama di Serena – crescono grasse e rigogliose dove pascolano capre e cavalli.

La notte, quasi tutte le notti, arrivano le capre! Quando il tempo è bello salgono lungo la strada e proseguono per la cresta:oltre il rifugio salgono fino a quando riescono a vedere, salgono per mangiare erba più giovane, e quando non possono più vedere si accovacciano e dormono. Il suono continuo e stordente dei campanacci ci accompagna nel sonno. La mattina all’alba riprendono il pasto prima di scendere per la mungitura, così tra le cinque e le sette ci fanno da sveglia, assieme ai richiami del pastore e alla luce del mattino. Non è raro che alcune di esse valichino il recinto tutt’intorno al rifugio e ci impegnino in furenti inseguimenti nel tentativo di farle uscire.

A.:«Gae! Cristo! Ciapà scià ül cülteel!».

I cavalli del pastore dell’Alpe Campo, di razza avelignese, pascolano liberi per i prati, sono curiosi, affascinanti alla vista ed eleganti nella loro vita in alpeggio tra sterco e rivoli di urina. Dal pelo chiaro e con la chiazza bianca sul muso, sono gli animali più possenti e docili che qui si possono avvicinare grazie alla loro intelligenza.

In aggiunta ai capi di G. si dice vi siano vipere, topi di campagna e altri piccoli animali come lo scoiattolo europeo e quello americano e galli cedroni, anche se personalmente non ne ho visti, eppure, lo ammetto, nel mio camminare cerco di prestare attenzione a quel che mi circonda e tendo l’orecchio in cerca di rumori ‘sospetti’. Nonostante questi incontri cercati ma non avvenuti, altri, a distanza più o meno ravvicinata, sono accaduti con il ‘falchetto’, in realtà il nibbio, il quale durante la caccia si produce in lunghe picchiate alla ricerca della preda tra la fitta erba giallo-verde, quindi in stalli più o meno prolungati per puntarla e infine in rapide e silenziose picchiate per catturarla; con l’aquila reale che vola alta, silenziosa e schiva; attenta, non si mostra quando sente che in giro per la montagna ci sono molte persone : qui vi è una coppia con un piccolo del quale ho assistito ad una ‘lezione di volo’, infine ho avuto solo una volta il piacere di sentire dal basso il loro alto gracchiare;inoltre si trovano gli stambecchi della vetta che guardinghi non si fanno avvicinare e agili scompaiono alla vista tra i ghiaioni scoscesi del Legnone; camosci e caprioli in Val d’Avano, anche se apprezzabili solo col binocolo, con cui assisto anche all’allattamento di un cucciolo di camoscio; le marmotte e i loro piccoli, la cui tana si trova a pochi metri dal rifugio così che tutti i giorni o quasi riusciamo a vederle e a sentirle fischiare.

Si sente parlare dei cervi, anche se si vedono molto di rado. Ragni e scorpioni sono invece così temerari e abituati all’uomo da entrare tra le lenzuola o fare passeggiate notturne sul cuscino.

In questo ambiente dove flora e fauna sembrano essere in buona salute, la natura può essere osservata nel suo impressionante manifestarsi.

I temporali la notte sono diversi da quelli giù in città o al lago, qui li si vedono arrivare e formare alla stessa altezza degli occhi: nuvole e correnti si spostano nelle valli sottostanti lente o veloci e si accumulano, grigie e bianche occupano tutto lo spazio tra le cime, crescono, mutano, aggirano i fianchi delle montagne o scavalcano le vette e scivolano per i pendii infilandosi nelle valli più strette dove correnti ascensionali li spingono nuovamente su e avvolgono il rifugio e tutta l’alpe. Dentro le nuvole c’è un’atmosfera unica: l’aria è satura della materia fredda e umida dei cumuli mentre il vento incessante ne trascina sbuffi che ammantano il paesaggio tutto intorno. Il temporale è il momento in cui la natura mostra tutta la sua energia, indomabile, incontenibile, infinitamente più grande di noi, o almeno di me. I fulmini fanno paura, bucano lo stomaco e quando cadono vicini luce stordisce la vista mentre il tuono è un sussulto di tutto ciò che sta dentro: è tutto un altro mondo; la luce dei lampi illumina di blu e viola, le pupille si chiudono ed ecco che tutto assume un aspetto inconsueto, nuovo ad ogni flash; ombre e luci si fondono nella totale incoscienza dello scoppio. Nulla vi è oltre al temporale; specialmente la sera, quando l’attesa che pervade tutto il giorno è sciolta e si può solo andare a dormire o assistere allo spettacolo dalle finestre.

G.: «Durante il temporale mai stare sulla porta, mai, perché che fulmina e poi rimani lì secco! Ecco!».

Ma la natura non è solo potenza, è soprattutto qualcosa che incanta per il suo essere inspiegabile.

Così come ci si sente incantati durante le notti di luna piena, quando i dorsi della montagna sono illuminati quasi fosse giorno. Quando il cielo è pulito grazie al vento, le ombre di alberi, sassi e animali sono nette, precise e scure sul fondo giallo-verde del prato, lunghe e affusolate, la luna è più bassa del sole all’orizzonte e illumina radente dando un’atmosfera e un rilievo al luogo estremamente diverso dall’abituale vista diurna. L’aria fredda fa venire i brividi e dal moto delle ombre pare di intravedere il genius loci. E le stelle nel cielo senza nubi sono innumerevoli, a conoscere le costellazioni se ne potrebbero riconoscere molte dell’emisfero boreale e, se gli occhi non mi ingannano, è visibile la Via Lattea, un insieme di tanti piccoli punti luminosi, talmente lontani e fievoli da sembrare illusioni della vista dovute alla poca luce e alla presenza di stelle più grandi e luminose, la cui luce gialla e calda è mossa dall’aria pungente. La luce di questa luna è totalmente diversa da quella di città: qui la luce ha la stessa consistenza di quella solare, solo che il cielo è scuro di notte.

Osservando tutto questo penso: «Perché l’uomo è così stupido da privarsi con le luci della città il piacere di godere della magnificenza delle stelle e partecipare di un creato infinito di cui è una minima parte? I piaceri della natura non sono solo visivi, ma è un’esperienza sinestetica totalizzante». Tuttavia ciò che può offrire la natura non è solo luce, infatti dei grandi misteri si possono trovare anche sotto i piedi: a fine estate escono i funghi. Tutti alla ricerca del Porcino! Se piove o è umido per una giornata intera, meglio due, e se non tira vento allora si possono trovare, ma se arriva il vento da nord che pulisce il cielo dalle nuvole e secca il terreno nulla spunta o cresce più. Pazienza e perseveranza, bisogna seguire i sentieri e guardare bene sotto ogni albero e in ogni radura erbosa tra essi. Parlando di funghi si parla del gusto e della consistenza della carne: strani esseri, non sono del tutto piante, non sono ancora animali, sicuramente sono interessanti.

11/7/13

Anche gli esseri umani sono interessanti nelle loro attività.

Ieri sera a cena abbiamo avuto ospiti due ciclisti Spagnoli, di cui uno vive in Francia e l’altro in Austria; entrambi conoscono l’inglese per affrontare sufficientemente sicuri i loro viaggi, e nonostante noi ne abbiamo una scarsa conoscenza, siamo riusciti a fare tante risate:in fondo l’importante è dare un nome alle cose, al limite ci si intende a gesti. Questi spagnoli non sono stati i primi, già con uno Scozzese siamo riusciti a intenderci, ma questo soprattutto grazie all’esuberanza di Serena.

16/7/13

Oggi sono arrivati sei Slovacchi, non ci siamo intesi solo sulla birra e gassosa, la radler. La lingua è una cosa molto strana, se integrata da gesti e con la pronuncia enfatizzata permette la comunicazione tra soggetti che non ne parlano una comune o che con questa fanno fatica a esprimersi.

Qui al Griera le nuvole hanno forme, volumi e luci diverse da quelle che si possono osservare giù in città o sul lago: sarà a causa della posizione parallela se non superiore al luogo dove si formano, il sole più vicino e diretto o il costante intersecarsi con le rocce della materia lucente spinta dal vento forte e costante.

17/7/13.

Il tempo fa quello che vuole, qui come altrove.

A cena siamo da due signori di Pagnona, M. ed E., nell’agglomerato di baite di Bedoledo con vista sulla valle a est e a ovest; luce è calda e diffusa nell’aria umida quasi irrespirabile a causa dello sforzo per la discesa. Da una piccola fontana incastrata tra rocce e cemento sgorga dell’acqua così fresca da non avere sapore e così limpida che la mia sagoma si staglia contro il cielo nel riflesso nella vasca. L’alpeggio è situato su una ripida parete di terra tenuta insieme grazie alle radici delle molte betulle che lo circondano, da cui il nome Bedoledo.

A tavola il coltello non esiste o meglio per tagliare pane, salame e formaggio si utilizza l’Opinel carbone, quello che sta sempre in tasca ed è utile in ogni evenienza. Le mani sono sporche di lavoro, di terra, polvere, animali, erbe, fiori e dal sudore che questi procurano. Gli ambienti domestici sono piccoli e scarsamente arredati alla vecchia maniera, proprio da baita: cucinino a gas a tre fornelli, lampada a gas; stufa a legna; camino; tavolo con cinque sedie; mensola degli alcolici; alle pareti un mezzo busto di camoscio e un calendario osé. Con quelle stesse mani si taglia il pane, si cucina il riso e si prepara la tavola. Sono cibi dai sapori intensi, da riempire bocca e il cervello; una cena buona, semplice e ricca di risa.

M.: «L’acqua non la metto giù per non offendere nessuno! Ah aaah ah!».

M.:«Il rosso, il barbera, se lo imbottigli in luna crescente diventa leggermente mosso, così mi piace di più! Provalo!».

Bedoledo è un luogo dalla classica e rara bellezza bucolica e agreste, caratterizzato e caratterizzante la propria ubicazione: a circa un terzo della più alta montagna prealpina del lecchese, in fondo alla Valsassina, guarda il lago di Lecco lungo la Valvarrone ed è circondato da una vegetazione variegata di alberi giovani, che fanno da base a quelli vecchi e imponenti, con tronchi e radici che vanno oltre la sola materia del legno per arrivare a qualcosa di più intimo del luogo stesso.

Io e Serena incominciamo la risalita al rifugio verso le 21. 30, dopo la cena conclusa con grappe e amari; la sera è stata rischiarata da un tramonto dapprima arancione e in seguito passato a un blu caldo, rischiarato da una mezzaluna crescente. Il sentiero, la diretta Pagnona-Legnone, la notte è popolata da occhi umidi e lucenti, i quali brillano alla luce della luna e delle torce; taluni di questi occhi si alzano e volteggiano tra i deboli contorni del fogliame immerso nel blu: sono lucciole. L’aria è umida e pesante, nel pomeriggio aveva piovuto e di sera il sole diretto ha creato della condensa che rende faticoso il respiro sotto lo sforzo della salita costante. Con una mano tengo la racchetta per aiutarmi nella salita, con l’altra la torcia per illuminare il sentiero davanti ai miei passi. Arrivati all’incrocio del sentiero con la strada beviamo da una fontanella la cui acqua sgorga dalla parete terrosa e ruscella lungo un ramo cavo dentro una vasca arrugginita.

Acqua fresca, sudore e affanno al chiaro di luna che filtra tra gli aghi dei larici: siamo anche noi degli occhi lucenti e vaganti nella notte. La stanchezza: una soddisfazione inappagabile quando ci si butta sul letto!

18/7/13.

Serena ed io partiamo alle sedici circa, discesa, discesa, discesa a zig-zag lungo il fianco della montagna, tra sentieri appena tracciati e improvvisati su terreni erbosi e sconnessi, tra rade betulle e larici: siamo ai prati di Stavello, fitti di felci alte quanto una gamba. Scendiamo ancora ed entriamo nel bosco di faggi e castagni i cui rami sono talmente articolati da sembrare che comunichino l’un con l’altro in una rete infinita di contatti, dicendosi quel che è necessario fare per preservare la vita della montagna, dell’acqua che fuoriesce dalle rocce, il tempo e la luce.

I funghi! Ne troviamo abbastanza da fare un piatto per due. Con questa uscita imparo a vederli tra erba e foglie, ma per riconoscere quelli buoni da quelli cattivi è troppo presto. Camminando per il sentiero superiamo quattro rivoli di acqua che trasuda dalla roccia e corre subito giù a valle per ripidi salti. Saliscendi per il sentiero e un gigantesco faggio ultracentenario ci si para davanti, noi arriviamo da est e ci muoviamo verso ovest – con il sole del tardo pomeriggio in faccia – la sua vista è imponente, ma non si discosta da quella di un albero normale, tuttavia girandogli attorno e guardandolo dal lato opposto, appena illuminato dalle nuvole, sembra essere accovacciato e ricoperto dalla montagna; sotto un risvolto di terra due occhi immensi e portamento fiero: fa la guardia. Le radici, robuste e serpeggianti, si perdono alla vista, entrano ed escono dal terreno, si estendono dal sentiero verso la valle fissandone le pareti e in su verso i massi della montagna cosìcche non possono ricadere. Il suo sguardo sono due nodi poco sopra il principio della prima diramazione e guardano fisso il fondovalle. Solide basi, un ricco passato, infiniti desideri futuri e un presente sicuramente forte e consapevole.

Qualche metro più avanti, dopo alcuni scalini di roccia a strapiombo su di una valletta sassosa vedo un abete rosso più grande dei suoi compagni, ignoro la sua età ma sicuramente ha più di cento anni, è il ‘socii’ del faggio monumentale di prima, sono le sue radici a suggerirlo, infatti svolgano la medesima funzione, mentre gli occhi di questo guardano in un’ altra direzione, verso il bosco che si apre ad ovest – mi regolo con il sole – lungo il sentiero dove si intravede oltre gli alberi il monte Muggio nei cui boschi immagino ci siano altri ‘socii’, uno per ogni versante, uno per ogni valle. Qui la montagna fa molti dentro e fuori a causa dell’acqua che filtra dalle rocce e scava i fianchi ghiaiosi.

Sentiero, sentiero, sentiero; saliscendi, saliscendi, saliscendi; erba, erba, erba; funghi, funghi, funghi; sassi, sassi, sassi; proseguiamo, una curva e il bosco si apre lasciando la vista libera verso sud-est, non riusciamo a vedere il fondo valle ma dall’altra parte, oltre la cresta, un banco di nuvole scure sta abbracciando la montagna per spingersi giù nella conca verso di noi. Un tuono, due, aumentiamo il passo. Nuovamente nel bosco. Poco più avanti, si cominciano a vedere muretti a secco che contengono la terra della costa per evitare che il sentiero si sporchi.

Comincia a piovere! via di corsa, Subiale è vicina! Questo è il primo alpeggio che si incontra salendo da Pagnona per la diretta, qui come a Bedoledo le case sono tutte baite dei Pagnonesi, nelle quali si ritirano per stare un po’ tranquilli e per mantenere vivo il posto dove sono cresciuti, i più anziani credo anche nati. Per quel che mi è dato di capire solo due case sono abitate tutto l’anno, cioè il ‘cassìnell’ della signora Giovanna e la baita di due coniugi veneziani in pensione. Ed è proprio sotto l’ombrellone di questi ultimi che ci ripariamo. Sono persone simpatiche e ospitali, subito smettono di giocare a carte per offrirci biscotti e vino. Personaggi un po’ folcloristici, totalmente estranei all’ambiente montano nel quale spiccano per il loro stile ‘baroccheggiante’, ma d’altra parte sono Veneziani. Tuttavia nemmeno i Pagnonesi sono gente tranquilla e ‘a modo’, come si suol dire; sarà per la montagna, sarà per la valle, sarà per la distanza dagli altri paesi che qui si conserva una mentalità diversa da quella che si trova giù in basso, qui resiste la cultura del lavoro, dell’impegno, della generosità, del rispetto, dei legami affettivi che vanno sempre onorati, il più delle volte con un bicchiere di vino, del mantenere più che del rinnovare e anche del va bene così come capita. Per ora posso dire solo questo, spero di cogliere altri particolari in seguito.

Le gocce che cadono sono grandi e fresche, aiutano il respiro togliendo parte dell’umidità che durante le ore più calde sale del terreno e rende faticosa la camminata. Dopo due chiacchiere e l’esplosiva ed esuberante cordialità dei veneziani riprendiamo a salire prima che la pioggia ricominci. La diretta riparte subito con una ripida mulattiera tra le baite per diventare sentiero dopo pochi passi.

Camminando si trova una cappelletta: Dio non si è dimenticato di questi luoghi e forse nella loro maestosa semplicità sono la sua dimora: strutture antropomorfe appaiono e scompaiono ad ogni passo, facce compaiono su rocce e alberi, e ‘parole’ si trovano scritte nel legno tagliato. L’icona della Madonna è tutta scrostata, la struttura in pietra e cemento non ha un aspetto solido, ma anche gli uomini non si sono dimenticati di Dio: infatti attorno alla cappella un’impalcatura di legno è pronta per i restauri: il rito si ripete per mantenere viva la memoria e il significato propri di questi luoghi dove le persone sono sempre meno ma la vita persiste, in qualche maniera arricchita da pensieri, speranze e ricordi di chi, da qui solamente di passaggio, non vi abita e non vi è nato.

Saliamo ancora, non manca molto a Bedoledo. La vegetazione è composta in gran parte betulle giovani o non molto vecchie le cui fronde impediscono al sole di riscaldare l’aria umida che sulla pelle rinfresca la fatica. Entriamo nell’alpeggio dove ci da il benvenuto un alto ciliegio che sovrasta la prima baita. I muri di pietra si accavallano, si toccano e si sorreggono l’un con l’altro, tanto vicini che l’agglomerato di baite appare un domino. Sul ciliegio sono rimasti pochi frutti buoni e quasi tutti sui rami più alti, la maggior parte è stata bruciata dal freddo della strana primavera appena trascorsa; comunque sia è un albero bellissimo, dal tronco robusto, dalle radici salde e dalla ramificazione filiforme tesa verso l’alto dove si espande.

Ci viene incontro un signore dall’aspetto anziano, sulla sessantina, con l’espressione quasi malinconica, pur nella gioia di accogliere Serena, sua amica e ospite per la cena. Si chiama B. ed è un uomo di un’altra generazione, ma il suo volto, così come quello di tutti gli anziani nativi del posto da me incontrati fino ad ora, non è indurito dalle fatiche, bensì segnato, ma appare molle, come se fosse riempito da un benestare sconosciuto ai loro avi, come ai miei, che riempie la carne tra le rughe; ha un volto stanco, assonnato, ma ancora vigile, gli occhi lucidi, tra il vacuo e il perso, il fisso e il presente; una pancia come una botte per forma e volume:” qui si beve molto e bene”, penso. Infatti si comincia con il prosecco e un po’ di salame rigorosamente tagliato col coltello tirato fuori dalla tasca.

Arrivano a tavola M. ed E., gli stessi che ci hanno ospitato ieri sera, loro mi spiegano che la lama migliore è quella opaca e grezza dell’Opien carbone perché tiene meglio il filo rispetto a quella lucida in acciaio inox. Un paio di risate e battute accompagnano il rosso in tavola. Anche in questa baita i muri sono bianchi, i mobili in legno e la sala da pranzo, come quella di ieri sera è piccola così l’arredamento è composto dall’indispensabile: vi sono una stufa, un fornellino a gas a quattro fuochi, un lavandino e qualche pensile sopra il lavandino, un tavolo, qualche sedia, una cassapanca e un letto a castello messo in posizione un po’ riparata rispetto alla sala ma senza teli che li separino, come se mangiare e dormire fossero attività intimamente unite e il padrone di casa non avesse pudori o riserve nei confronti dei suoi ospiti.

Seduto a questo tavolo sento di stare in compagnia di un’umanità differente da quella che ho conosciuto fino ad ora – non so spiegare bene questa sensazione – forse più vera, meno affannata per l’avvenire, interessata a consumare la vita nel piacere della convivialità, del cibo, del bere e dell’infrangere la quotidiana routine del lavoro di fatica con eccitanti pazzie. Forse per alcuni aspetti più genuina e per altri più sconsiderata di quella da cui provengo, ma del resto questa sua ambivalenza ha qui nella montagna sua ragion d’essere: non si arriva in cima senza dare qualcosa, non si scende senza aver preso, salire per nulla non esiste.

M: «Tutti sono utili, nessuno indispensabile».

Anche qui al muro è appeso un mezzo busto di camoscio impagliato, ben tenuto e fiero, è un trofeo di caccia degli anni passati..

Io: «Ho bisogno del bagno, dove è? ».

B.:«È fuori, scendi le scale e scendi per il sentiero, è la porta sulla sinistra, la luce dietro a destra, tira la tenda e fai quel che devi fare!».

Io faccio.

Il bagno è fuori, all’interno della cantina sottostante la sala da pranzo dove stiamo mangiando ed è necessario percorrere una curva a gomito del sentiero per raggiungerla. L’interno sembra un luogo di incontri clandestini: muri di sassi grezzi e ruvidi solo alla vista; dei tavolini di legno là nell’angolo e contro quattro sedie, scatoloni e contenitori di ogni cosa sono sparsi sul pavimento sconnesso, ancor più ‘sassoso’ dei muri. Una luce debole, proveniente da una lampadina pendente dai propri fili, illumina questo semplice ambiente dall’atmosfera umida e di un’ombra grigio-verde, riflessa dalle pareti e diffusa dall’aria pesante. Poggio il piede in direzione del tavolo e il passo malfermo mi fa capire che quell’intimità non può essere vista da tutti, è solo di passaggio per raggiungere il bagno, una necessità, perciò non tutti vi possono accedere. Desisto dal desiderio di osservare più da vicino e torno su in sala, mi siedo nuovamente a tavola dove sono comparse le grappe per l’ammazza caffè e mi verso mezzo bicchiere di distillato sottilmente offertomi dagli altri commensali.

M.: «no, non che qui siamo tutti ubriaconi, ma perché tu devi imparare a bere, non troppo, ma un pochino fa bene e poi a queste altezze qua e con queste temperature aiuta eh! Ah aaah ah! No, no, no e poi questo è buono, garantisco io! Ah aaah ah!».

Bevo e mentre il bruciore dell’alcol mi disinfetta bocca, gola, esofago e stomaco ripenso alla cantina: “incredibile, questa esperienza mi mancava da vedere, sentire e provare! Per andare a fare la pipì ho dovuto fare più di cinque metri sul saliscendi del sentiero con la luce della torcia”.

Quello che veniva chiamato homus novus è difficile da trovare qui, se non impossibile, ma sicuramente vige l’hic manebimus optime con tutto l’impegno che ne deriva: baite ristrutturate e ben tenute per permettere una vita agevole a chi vuole mantenere i ripidi prati e i boschi con orti e stufe; panchine in faggio o betulla da poco levigate e infisse nel terreno con uno schienale alto per rendere comodo il sedersi di fronte alla fontana dell’alpeggio, il quale si sviluppa su un sentiero curato sotto la fresca ombra delle betulle.

M.: «Ma quando muoio, che cosa faccio? Che cosa succede? Poi fanno una strada fino alla mia casa? Io voglio stare qui, io voglio stare qui bello tranquillo, lontano dal rumore della città. E poi la strada non ha senso! Sei in montagna e per portare cose e sacchi e materiali devi fare sempre un pezzo a piedi, trasportando a spalla, non ti cambia niente la strada. E poi sei in montagna, capito! E Io quando muoio che cosa faccio? A chi lascio questa baita? E se poi arriva qualcuno che vuole fare la strada?!»

Sono le giuste domande mosse dalle inquietudini di un uomo la cui vita è legata a questo posto come l’albero con le sue radici, perché la montagna è un mondo e una dimensione diversa dalla città, anche se da questa dista pochi chilometri ed è qualche metro sopra. Il desiderio di mantenere la memoria e la funzione di un luogo come lo si è trovato è radicato nella nostra selva di esperienze interiore.

Risate e convivialità, questo è il lato dei Pagnonesi che ho conosciuto in queste sere, ma sono sicuro dell’esistenza di un altro, forse l’opposto, altrimenti non esisterebbero le cantine di sotto. Parlando di coltelli, dell’ acqua, di caccia, di pesca, di famiglia, di lavoro, di alberi, di funghi e di vette si capisce parte del pensiero di questo luogo: i ‘socii’ di queste cene sono persone di una certa età, ora in pensione, chi di loro è andato via per lavorare e vi è ritornato, chi invece è sempre rimasto qua. E con la loro voce rauca e gli occhi lucidi, più profondi di quel che sono in grado di percepire, mi hanno comunicato una sapienza tutta legata al fare, all’osservare, alla terra e al lavoro manuale, sapienza che qui esiste e resiste.

M.: «Un coltello in mano e ti senti più forte…Se qualcuno ti dice qualcosa, è un attimo! Eh».

E.: «Si, ma devi anche saperlo adoperare, sennò diventa pericoloso!».

B.: «Già».

M.: «Bééf giò un po’ de negro ti che fa bene».

M.: «Vuoi un po’ di grappa? Questa buona! La faccio io. Vado a raccogliere il genepì nei posticini che so io e sono posti buoni e poi li metto nella grappa e la lascio lì sulla mensola e così quando come oggi ci sono ospiti come vuoi, perché mica bevo sempre io, prendo la mia bottiglietta e la metto qui, in tavola!».

Io: «Si!».

Finita la cena con grappe e caffè si va a letto, ma non in quello lì di fronte al tavolo bensì in quello della casa dove abbiamo mangiato altrettanto allegramente ieri sera. Dormire nella casa di quello che per me è fondamentalmente uno sconosciuto, è un’esperienza incredibilmente nuova. Qui la camera da letto è separata dalla sala da pranzo mediante una tenda e ci introduce la sempiterna bella (F. Guccini – Addio) Elisabetta Canalis di maggio, in grandissima forma sul calendario Max! Anche qui il letto è a castello ad una piazza e mezza, come se fosse già in programma di avere almeno un ospite, una cosa normale, quotidiana: l’ospitalità. Un bel sorso di acqua fresca della fontana qui vicina e andiamo tutti e tre a dormire. Il signore che ci alloggia, anziano ma attivo, è un gran russatore, ma il sonno alla fine arriva e con esso il riposo.

Anche qui il bagno è fuori: se mi scappa la pipì? Torcia!

Il mattino a colazione tè e fette biscottate; poi pipì, saluti e di nuovo in cammino sulla diretta per tornare su al rifugio. Le gambe fanno fatica ad andare avanti, i polpacci sono come di legno e i piedi non spingono, sentono la fatica della notte, il freddo, il non infastidire Serena che ha dormito da parte a me, le poche ore di sonno, ma tutto sommato è stata un’esperienza soddisfacente, e questo ci aiuta a risalire. Per affrontare più agevolmente la salita E. mi dà una ‘magnöla’ – un bastone – e ci saluta sulla via del ritorno assieme al suo cagnolino. Senza infamia e senza lode, proprio vita la loro, per loro. Persone gentili e generose quelle da cui siamo stati ieri sera, persone del posto, veramente, le cui rughe mi ricordano le striature delle rocce sui crinali e le radici degli alberi nel terreno e i rami nel cielo.

22/7/13
A cena io e Serena siamo dal pastore G. all’alpeggio di Campo durante una delle tipiche tempeste di metà estate, dove tra la grandine battente sul tetto di lamiera e i tuoni sordi e secchi, tra il buffare del vento e il tappeto di scampanellii e belati delle capre il parlare è impossibile se non a meno di 10 cm dalla faccia dell’interlocutore. Il cielo verso sud è nero e continuamente illuminato da fulmini, mentre da nord le nuvole bianche si dirigono verso il temporale spinte dal vento e spostandosi trascinano la luce gialla e calda del tramonto che in un attimo avvolge l’intero alpeggio, perfino cancella il temporale nero che si avvicina. Verso sud i fulmini illuminano il cielo di viola, saettano lungo la pancia delle nuvole e si allungano giù verso le cime dei larici come lunghe dita affusolate e pungenti. Le capre si accalcano sotto la sosta in cerca di riparo dai ‘tempestii’ – la grandine – che stanno imbiancando il piazzale dell’alpeggio, sbattono e si incornano tra di loro, sbattono contro la porta di ferro, sbattono contro i vetri delle finestre, belano e guardano dentro con aria quasi stupita. Guardando fuori vediamo solo le sagome nere agitarsi contro le nuvole illuminate e, di tanto in tanto, qualche fulmine violetto illumina il pascolo bloccandolo per il solo tempo del lampo.

Per cena pasta alla ‘vegia’; all’alpeggio l’ambiente domestico è ancora più scarno ed essenziale rispetto ai precedenti, gli unici elementi di arredo sono due crani di capra, mezzo di camoscio e i campanacci delle bestie morte durante la stagione, tre, in aggiunta una credenza, un lavandino, un mobile per vettovaglie varie ed eventuali, la vetrina degli alcolici, un tavolo e delle sedie, stufa e camino, il pavimento è in cemento, il soffitto a travi, nulla di più; le stanze per dormire e il bagno sono in altre parti della struttura, le prime al piano di sopra, mentre il secondo è a fianco della cucina, a questi si accede dal piazzale esterno; inoltre vi è il locale per trattare il latte appena munto e farne pasta di caprino, ‘mascarpa’ e ricotta.

G.: «La differenza tra ‘mascarpa’ e ricotta sta nel fatto che la prima subisce una sola cottura la quale viene interrotta durante la prima bollitura, la ricotta subisce due cotture, appunto ri-cotta».

Stacchiamo radio e tv per la paura che possono essere colpite da un fulmine e mentre la pasta si cuoce godiamo dello spettacolo del cielo in lotta. Ci sediamo a tavola, ora la grandine batte meno e il parlare è nuovamente possibile ma vento e fulmini non diminuiscono di intensità. Scoppia un lampo tra i larici qui vicino, io sono di spalle alla finestra e vedo la mia ombra apparire netta sul muro di fronte che da grigio è diventato viola. Prendo subito una macchina fotografica per fermare le espressioni stupite di Serena e di G. scatto e nel mirino vedo lo scoppio di un altro lampo: viola!

Io: «Speriamo sia rimasto dentro!».

Il pastore è la classica persona terra a terra,semplice ma tutt’altro che stupido, uno di quelli che i problemi si risolvono così o cosà; come dice lui è di stazza imponente, più di un metro e novanta per circa cento chili, ma sono le mani e le braccia a fare impressione, infatti è con queste che lavora: munge le capre e le doma assieme a cavalli, maiali, tacchini, polli e cani ed è bravissimo a cacciare le bestie che tentano di entrare in casa e a far ragionare quelle riluttanti. Anche lui è generoso e a tavola incalza gli altri a mangiare e bere le sue stesse razioni: «mangia! Formaggio, pancetta, tacchino, palle di becco! Sarà anche una cucina povera ma è ricca di sapori.

Maa giò! Maa giò! Non fare mica complimenti!».

La serata prosegue così, tranquilla, nel mezzo del temporale estivo al ritmo di racconti di vita tutti particolari: morti improvvise, premeditate o capitate in ricorrenza di altri eventi, oltre ai danni fatti dagli animali a cose, proprietà e persone e le relative conseguenze!

3-4/8/13

Oggi è la festa degli alpini di Pagnona e i Pagnonesi, anche se hanno riempito il rifugio per la cena, non dormo al rifugio, loro stanno fuori, cantano e bevono fino a non reggere più e poi c’è il prato. Ovviamente dormono sull’erba dura e pungente dei ripidi versanti del Legnone nel sacco a pelo: una notte proprio così, sotto le stelle, all’aria fresca e con la sveglia dell’alba. Nulla di più vero e genuino che avere l’erba come cuscino, purché non siano dovuti ad un divertimento eccessivo e triviale, la qual cosa li tramuterebbe in letti di fortuna.

Un’ospite del rifugio – una punk dei nostri tempi e dall’aspetto non avvezza alla montagna – dice poco prima di cena a una sua amica: «Io la trovo un’idea carina di fare l’amore sotto le stelle, scusa se si può, se c’è l’occasione perché no? Dai amore scopiamo sotto le stelle!».

Eccome dire no?

15/8/13

Oggi è iniziata la realizzazione del Gisol ad opera di Arduino, il taglialegna del rifugio. Tutto è cominciato due anni fa quando ha visto un tronco abbattuto con una grossa radice che girava intorno alla base e con un buco scavato dagli insetti dove poter posizionare una Madonna o un Gesù; una decina di giorni fa l’Ardu ha portato fino al rifugio il tronco con la jeep, ma nel trasporto la radice, già marcia, si è staccata dal corpo centrale. Ardù: «oh madone!».

Ardù: «E con questo faccio un bel ‘Gisöl’, lo metto lì, bello tranquillo, riparato, sempre al sole e guai a chi adesso me lo tocca».

La base è il muretto a secco che fa da bordo alla costa del sentiero collegante la strada militare al rifugio. L’Ardù si adopera nell’ampliamento di quello preesistente per creare una superficie piana abbastanza ampia da poterci appoggiare il tronco, il quale sarà l’altarino del ‘Gisöl’. Lavora di piccone per scavare la terra e poi di martello per spaccare la pietra alla giusta misura. Colpi decisi e secchi, l’Ardù lavora alacremente: ha tutto il progetto in mente, esiste solo lì fin quando non gli dà una forma reale attraverso i suoi manufatti. Passo passo l’opera prende forma, colpo dopo colpo il volume diminuisce, aumenta, i contorni cambiano, gli strati si poggiano l’uno sull’altro; la forza e l’impegno deciso delle mani, delle braccia e delle spalle appaiono poco a poco nell’oggetto finito. I materiali sono duri e grezzi, il risultato finale dipende da questo: venature incise dal tempo, superfici ruvide come le mani che modellano, spine, aghi e cristalli rilucenti al sole. Spacca i sassi e li impila uno sopra l’altro ad incastro per creare il muro e martella, martella, martella per appiattire e saldare il tutto con la terra, poi vi pone il tronco e per oggi è finita.

La posizione del Gisol è perfetta: guarda la valle di sotto, i laghi di Como e di Lugano, le nuvole della Lombardia e del Ticino, sempre cariche di umidità e di energia; guarda ad ovest il ‘Gisöl’ e prende la luce dalla prima mattina fino all’ultima striscia verde del tramonto, passando per i giochi dei riflessi del sole sui cumuli nel pomeriggio.

La sera andiamo di corsa giù per la diretta,la prima tappa è la fontana di Bedoledo per bere un po’ di acqua fresca dopo 20 minuti di affannosa corsa in discesa; sono talmente sudato che gocciolo dal viso sulla camicia, inoltre l’abbigliamento non è il più adatto: pantaloni lunghi, maglietta, la già citata camicia e la felpa, il tutto stretto al corpo dalla cinghia della fotocamera.

Corre, corre, corre; salta, salta, salta; buffa, buffa, buffa! Quando siamo partiti dal rifugio faceva freddo e c’era vento, qui all’alpeggio l’aria è calda e ferma, la distanza non è molta, ma l’aria è cambiata, dipende da come gira. La meta finale è Subiale dove questa sera vi è la spaghettata di Ferragosto con birra, vino e il caffè aromatizzato con scorza di limone, chiodi di garofano, forse foglie di alloro e l’immancabile grappa. Questo è uno dei tradizionali past che d’estate si festeggiano nella zona di Premana; in aggiunta vengono fatti esplodere dei fuochi d’artificio nel contorno del bosco come gran finale della serata. Arrivato il buio da un alpeggio non lontano si vedono i bagliori rossi di un falò che a poco a poco si alzano lungo le pareti delle case e contro la roccia della montagna; sale la luce del il fuoco in lingue e zampilli ben visibili anche da qua. Il past è un rito della comunità svolto all’alpeggio ed è aperto ai pochi abitanti che in questo si possono identificare. Ed io solo osservandolo, sentendomi dentro e fuori dalla comunità pagnonese, ho acquistato involontariamente un pezzo di questa identità e con essa il diritto di ricordarla. Io qui cittadino rurale ho guadagnato il diritto di partecipare ad una nuova società, quando nella mia non solo questo diritto sembra non esistere, ma nemmeno sembra esistere la partecipazione in un mondo composto in maggioranza di piccole donne che non cresceranno mai e di grandi uomini non più alti di una bottiglia tappo corona.

19/8/13

In alpeggio da G. la stufa è accesa per riscaldare l’ambiente durante la cena e dalla pentola di riso, posta a scaldarsi sul cucinino, esce un odore umido di cibo che satura l’ambiente. Oggi è una giornata grigia, ventosa e fredda.

Attraverso le finestre si vedono le nuvole, accumulatesi per tutta la giornata nei celi della Svizzera, che cominciano a muoversi spinte dal vento; sebbene abbiano una consistenza pesante e compatta i loro movimenti sono rapidi e costanti. In direzione della luce del tramonto lo spazio tra loro si apre, ma qui tra la valle del lago e quella del Varrone si restringe. Il vento sale fin qua e va oltre, creando tutt’intorno all’alpe Campo una quinta di nuvole che ci permette di osservare la luce arancione che, filtrando dalla condensa, illumina le valli oltre il lago dove i perimetri e i volumi di nuvole e montagne mutano in vortici nel controluce. Giù il sipario! Per un attimo l’alpeggio è immesso nella stessa luce calda e soffusa che vedevamo in lontananza, ma è solo per un attimo, tutto diventa grigio, sentiamo un paio di tuoni e infine comincia a piovere. Così le bestie si agitano e tornano sotto la sosta per ripararsi dall’acqua e dal vento che tra pari e alberi ulula.

Stasera per cena ‘riis cünsc’, frittura di gallo, formaggio e pane fatto dal pastore, un po’ duro e compatto, senza sale, ma si accompagna bene all’arresto.

G.:«Ül paan lè le, ormai lè fac, lè fac, lè fac. Frittura con balle di cappone! prüa ül fidech lè bell morbit, prüa anca i coricin».

Il gatto nero dell’alpeggio si struscia alla finestra, si gira, si accoccola, sbadiglia, guarda dentro a noi e a cosa stiamo facendo, alza la coda e salta giù; e rimane solo l’immagine degli occhi verdi e furbi.

«Ma i cavalli cagano dove c’è l’achillea o è l’achillea che cresce dove ci sono le bagole di merda?».

«La merda del cavallo è grassa! È tutta erba, mangia e caga, mangia e caga. La merda del cavallo è tutta erba, perché il cavallo non è un ruminante, mangia e assorbe quello che gli serve e poi caga fuori tutto il resto. La mucca, la capra, la pecora sono ruminanti e la loro cacca è diversa, perché fanno passare e ripassare tutto quello che mangiano. Se pesti quella del cavallo è come erba, ma la ‘boascia’ della mucca… Per i generali a casa nella terra ho aggiunto un po’ di terra di cavallo e di capra… aaaah! Ma dei gerani belli così nessuno e sono quelli dell’anno scorso! Li ho salvati dall’inverno. E poi per bagnare le piante prendi un bidone ci metti la merda del coniglio, riempi d’acqua e poi la usi per bagnare… aaaah! La merda coniglio è ottima per bagnare!».

Sancta semplicitas! Cosa si può volere di più di un po’ di merda quando riesci a dare la vita o almeno a migliorarla! Perché inseguire piacere e benessere cercando e ricercando il non plus ultra della nostra civiltà cittadina e tecnologica che si affoga nella comunicazione di questi e tra questi, quando tutto è già a disposizione?

Questi discorsi mi fanno pensare che la gente di questo posto – come tutte le persone delle zone rurali – abbia una conoscenza pratica della natura per la quale è difficile non mostrare interesse anche da parte di chi la natura la vive per quel fine settimana di bel tempo. Una conoscenza di cui noi, gente di città, necessitiamo per capire e non sentirci persi negli ambienti esotici che circondano le nostre abituali città. Una conoscenza che ai nostri occhi appare intrisa di sogno e mistero.

22/8/13

Questa mattina abbiamo salutato due giovani ciclisti tedeschi poco più che ventenni, lui e lei fidanzati, i quali hanno cenato e pernottato da noi. Guardandoli mi è sembrato avessero caratteri fisionomici simili nostri, ma osservandone con attenzione i particolari si notano quelle differenze che ci distinguono: noi mediterranei e più tondi, loro centroeuropei, più fini e squadrati. Anche con loro la comunicazione è stata difficile ma siamo riusciti a intenderci con un po’ d’inglese. A tavola, più li osservavo durante la cena più mi sembravano diversi: dalla linea del naso, alla carne e agli angoli della bocca, la forma delle mani, i movimenti e l’attenzione che mostrano attraverso il taglio degli occhi: sono diversi.

9/9/13

Siamo da poco entrati in settembre: già da qualche giorno l’aria è cambiata, è più fresca e densa, gli odori sono più concentrati, uniti tra loro e intensi; il sole scalda ancora appena esce dalla cresta ad est, ma l’aria è diversa, è il naso che lo dice.

Forse la vera motivazione di queste osservazioni risiede nel desiderio umano di trovare un senso a tutte le ‘cose’ e questo è un tentativo di attuarlo.

Daniele Re

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